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Il Cieco Nato

Sappiamo tutti come sia menomante la condizione di un cieco per di più se è nato tale. Non può meravigliarsi della bellezza dei colori, della bellezza di un cielo azzurro o invece di quello tempestoso di un temporale ma nemmeno della bellezza dei colori tenui o infuocati di un tramonto. Per di più non può godere della bellezza dei volti e degli sguardi delle persone che ama. Non potendo vedere è privato di gran parte della bellezza di cui godono i vedenti così che un cieco non può vivere pienamente la sua vita.

Gesù vede questi limiti a cui è costretto il cieco nato che sta sul ciglio della strada a mendicare come accade a chiunque che sia povero e privato di qualcosa.

La narrazione della vita di Gesù contenuta negli evangeli è ricca di episodi che raccontano la capacità di Gesù di saper vedere tanti uomini e donne che si sentono in buona parte esclusi dalla vita perché non pienamente inseriti nella presunta normalità che porta taluni che si credono normali a escludere gli altri.

Dunque, nell’episodio del cieco nato che è storia del venire alla luce della fede, Giovanni sottolinea che “Gesù passando vide”. Con questa sottolineatura l’evangelista vuole renderci attenti che il Maestro non cammina mai con sguardo indifferente nei confronti della realtà che vive; a maggior ragione Lui che è venuto a redimerla in tutti gli ambiti dell’umano perché l’uomo possa fare esperienza di vita piena; priva cioè di quegli impedimenti che la rendono menomata come può essere il caso della vita di un cieco.

Così Gesù non passa oltre rispetto a una situazione di disagio esistenziale ma con sguardo che sa vedere si ferma e compie il miracolo.

Ciò che riempie di stupore in questo brano dell’evangelo è che Gesù opera il miracolo della guarigione del cieco senza chiedere nulla allo sventurato. Con incondizionata gratuità guarisce il cieco riabilitandolo pienamente alla bellezza della vita donandogli la vista.  

Mi pare poi importante anche notare che Gesù non si rivela al cieco nato immediatamente come il Messia. Anzi, lascia al cieco che la sua libertà maturi progressivamente questa confessione di fede senza nessuna imposizione. Riferendo la sua esperienza a chi lo interrogava circa l’identità di colui che lo aveva guarito in giorno di sabato, il cieco guarito dirà infatti in un crescendo di consapevolezza: “l’uomo che si chiama Gesù” per affermare successivamente che per lui “è un profeta”, per ammettere poi che se costui non fosse da Dio non avrebbe potuto fare nulla, sino a giungere al punto culminante quando il cieco guarito lo riconosce e lo confessa Signore.

Solo dopo la guarigione Il cieco, ora guarito, riconosce e confessa la sua fede su chi sia veramente l’uomo che gli aveva spalmato del fango sugli occhi e lo aveva inviato alla piscina di Siloe, simbolo del fonte battesimale che rigenera; a miracolo avvenuto non prima!

Potremmo dire, che solo dopo aver sperimentato l’amore di Dio per lui che sana senza chiedere nulla in cambio ma con assoluta e sovrana, incondizionata gratuità, il cieco acquista la luce della fede!

Penso dunque di poter leggere in questo racconto un’indicazione importante per la nostra Compagnia di S. Paolo. Sull’esempio di Gesù siamo chiamati ad avere come unica nostra preoccupazione quella di essere anzitutto di coloro che mentre camminano incarnati in questa realtà del nostro tempo sanno “vedere” le povertà dell’umano ma anche l’apertura del cuore di ogni uomo e di ogni donna per andare incontro ad essi con spirito di servizio e unicamente con il desiderio di essere tramite dell’amore di Dio che è gratuito, incondizionato e rispettoso della libertà altrui per suscitare la domanda della fede.  

Solo così si apriranno gli occhi alla luce di quanti avvicineremo perché è solo il miracolo dell’amore sperimentato che dischiude la vita alla luce, alla speranza e alla fede.

Madeleine Delbrêl, mistica del ’900, come la chiamava il cardinale Martini, scriveva a un suo amico sacerdote che poi diventerà il cardinale di Parigi, chiedendogli di rimanere nella capacità di farsi incontrare dall’uomo, scoprendovi il mistero di un’umanità visitata dall’esperienza dell’Incarnazione. 

Ma ugualmente alla luce di questa pagina non dobbiamo sorvolare sul fatto che questa storia ci riguarda, è come una parabola della nostra condizione umana. Il cieco che non ha nome, ci rappresenta. Forse ci disturba l’essere assimilati ad un cieco. Siamo infatti persuasi di avere buoni occhi capaci di penetrare nella complessa struttura della realtà, conoscerla e modificarla.

L’evangelo di oggi ci dice che il non riconoscere Gesù come nostro Signore, luce e quindi senso ultimo della nostra esistenza, fa sì che ci si trovi nell’oscurità. Non bastiamo a noi stessi. Occorre pertanto non smettere mai di cercare la luce che è Gesù per vedere sempre meglio nella vita di tutti i giorni.

Fabio Volpato

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